Su una Terra devastata, in un futuro lontano, la società si è evoluta per classi sociali, definendo ogni individuo in base alla classe di appartenenza. Nobili, Contadini, Cadetti, Mek, ogni gradino sociale proviene da un mondo diverso, spostatisi sulla Terra per profitto. Gli agglomerati sociali vivono in castelli, roccaforti poste in luoghi strategici o difendibili con facilità. In questo contesto si sviluppa la ribellione dei Mek, e l’abbattimento di tutti i castelli. Solo uno, Hagedorn, ancora resiste, ma i suoi abitanti sono divisi fra orgoglio e timore. Qual è il modo per uscirne e sopravvivere? Bisognerebbe negare del tutto il presente e ritornare ai lontani ricordi di un passato ormai sepolto da millenni sotto un manto di illusioni e ipocrisie…
Recensione:
Il mondo che Vance ci presenta ne L’Ultimo Castello (The Last Castle, 1966), è una Terra ormai desolata, che mostra i segni di una devastazione troppo estesa per essere arginata. Sebbene ci si trovi sul nostro pianeta, gli umani – intesi come terrestri veri e propri – sono isolati, esterni alla civiltà presentata, mostrandosi come predoni e abitanti del deserto. Gli uomini dei castelli, invece, sono nativi di un qualche pianeta lontano nello spazio, insediatisi sulla Terra per diversi fini. Essi si fanno chiamare Nobili, e sebbene siano studiosi, ripudiano la praticità, incapaci quindi di costruire oggetti o di combattere. Tutto è lasciato a servi e schiavi, ognuno con le proprie capacità, ognuno proveniente da un pianeta differente. I Contadini, inutile specificare di cosa si occupino, si mostrano come esseri gracili, privi di iniziativa e di grande intelletto. I Cadetti, rappresentati come fossero i giovani della società, spesso irruenti e impulsivi. Le Phane, danzatrici dalla bellezza sovrumana. Gli Uccelli, esseri alati capaci di trasportare carri per viaggi a lunga distanza. E, infine, i Mek. Operai e soldati. Sono la base, il vero fulcro della società della Terra. Incapaci di nutrirsi da sé, a causa dell’inutilizzo dei loro organi digerenti, si cibano di uno sciroppo, confezionato per ordine dei Nobili, e soggetti quindi a una schiavitù di necessità. Sono una forma di vita collettiva, dotata di antenne che gli permettono di comunicare gli uni con gli altri senza bisogno di parole.
La rivolta sociale che Vance ci racconta in questo libro ha profonde radici nel mondo che conosciamo. I Mek, schiavizzati per il troppo utilizzo di una sostanza nutritiva – una sostanza che li faceva sentire bene, quindi – non sono altro che dipendenti, ormai incapaci di rimediare all’errore commesso dai loro progenitori. La Nobiltà stessa sembra futile, un potere privo di potere, nella condizione in cui un uomo è dotato di conoscenza, ma non può metterla in atto per una propria imposizione. In tale situazione, l’uomo si è autoimposto una minorità, che ricorda tanto quella superata con l’illuminismo. Citando Kant: L’illuminismo è l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità il quale è da imputare a lui stesso. Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessi è questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi del proprio intelletto senza esser guidati da un altro. In questo caso sarebbe naturale imputare la minorità ai servi, ai Mek, piuttosto che ai Nobili. Ritengo invece che sia un rapporto biunivoco: da una parte la dipendenza, dall’altra l’inattività.
Ed è qui il punto focale del romanzo: le classi sociali rappresentano un singolo tipo d’uomo ognuna, e nessuno di esso è capace di vivere la propria vita da solo. Il castello, simbolo per eccellenza della solitudine e al contempo della resistenza, si tramuta qui in un rifiuto simbiotico della solitudine, dove la resistenza – e quindi la forza individuale – viene meno per far spazio alla totale incapacità di sopravvivere senza gli altri. Dunque, sebbene sia impossibile vedere solo in accezione negativa la società – poi- ché anche l’isolazionismo rappresentato dal castello è negativo – è anche vero che è condannato il legame troppo forte con la società stessa. Dunque due eccessi, rappresentati dallo stesso simbolo. È questo il punto di forza del libro, che si baserebbe altrimenti su un insieme di personaggi non troppo caratterizzati, se non – al limite – il protagonista Xanten. Gli altri personaggi si trovano in situazioni che mettono poco in luce la loro individualità. E se da una parte questo impedisce ai singoli di essere ricordati, dall’altro richiama ancora il discorso della classe come unico individuo. Dunque potremmo quasi considerare i Nobili come un unico personaggio. E coloro che davvero acquistano l’individualità – nel romanzo o nell’ambientazione – sono allontanati o scelgono l’esilio volontario, lasciando il castello. Lasciando, quindi il fulcro dell’amalgamazione sociale.
Un romanzo da leggere, dallo stile scorrevole nonostante l’età, e capace di far ragionare lungo le sue poche pagine.
L’Autore:
Jack Vance è nato a San Francisco nel 1916. Dopo aver studiato all’Università della California, si è dedicato a tempo pieno alla carriera di scrittore di Narrativa Fantastica, e oggi viene considerato uno dei «mostri sacri» della narrativa di Fantascienza e Fantasy. Idolatrato da milioni di fans in tutto il mondo, conta al suo attivo oltre 600 fra romanzi e racconti, scritti i cinquant’anni di attività, che gli hanno fruttato tutti i massimi premi del settore, dal Premio Hugo al Premio Nebula, dal Fantasy Award al Premio Pilgrim, al Balrog. Ha viaggiato in tutto il mondo, e le esperienze acquisite in diversi Paesi gli sono servite per creare contesti e avventure vere e proprie che poi ha riportato nei suoi libri.
Maurizio Vicedomini