Titolo: Il pastore d’Islanda
Titolo originale: Advent
Autore: Gunnar Gunnarsson
Anno di pubblicazione: 1936
Anno di pubblicazione in Italia: 2016
Editore italiano: Iperborea
Traduzione: Maria Valeria D’Avino
Pagine: 82 nette + appendici
Genere: racconto esistenziale
Trama:
Il Natale può essere festeggiato in tanti modi, ma Benedikt ne ha uno tutto suo: ogni anno la prima domenica d’Avvento si mette in cammino per portare in salvo le pecore smarrite tra i monti, sfuggite ai raduni autunnali delle greggi. Nessuno osa sfidare il buio e il gelo dell’inverno islandese per accompagnarlo nella rischiosa missione, o meglio nessun uomo, perché Benedikt può sempre contare sull’aiuto dei suoi due amici più fedeli: il cane Leó e il montone Roccia. Comincia così il viaggio dell’inseparabile terzetto, la «santa trinità», come li chiamano in paese, attraverso l’immenso deserto bianco, contro la furia della tormenta che morde le membra e inghiotte i contorni del mondo, cancellando ogni certezza e ogni confine tra la terra e il cielo. È qui che Benedikt si sente al suo posto, tra i monti dove col tempo ha sepolto i suoi sogni insieme alla paura della morte e della vita, nella solitudine che è in realtà «la condizione stessa dell’esistenza», con il compito cui non può sottrarsi e che porta avanti fiducioso, costi quel costi, in un continuo confronto con gli elementi e con se stesso, per riconquistare un senso alla dimensione umana.
Nella sua semplicità evocativa, Il ”pastore d’Islanda“ è il racconto di un’avventura che diventa parabola universale, un gioiello poetico che si interroga sui valori essenziali dell’uomo, un inno alla comunione tra tutti gli esseri viventi. Esce per la prima volta in Italia un classico della letteratura nordica che ha fatto il giro del mondo e sembra aver ispirato Hemingway per Il vecchio e il mare, considerato in Islanda il vero canto di Natale.
(Quarta di copertina tratta dal sito dell’editore.)
Giudizio:
Il pastore d’Islanda è un racconto atipico. Pur non raggiungendo le cento pagine di lunghezza, rivela una trama esile, non debole ma nemmeno così densa di fatti. È chiaro che a Gunnarsson non interessa la meccanica del plot, non costruisce tensioni e colpi di scena. Lavora sulla lingua e sulle sfumature, sforna frasi che sono aforismi densi di significato, quasi dei brani di un testo religioso. E riesce ad ammaliare. Si fa leggere, si fa seguire, lascia intravedere tante cose senza banalizzarle, come avviene per tutto ciò che è troppo in vista. E così capita che un racconto lungo 82 pagine richieda una seconda, lenta, attenta lettura.
Perché ti è piaciuto ma forse tu, concentrandoti sulla trama, riflettendo su alcune frasi abbaglianti nella loro forza, forse hai perso qualcosa, forse non hai colto tutte le sfumature, tutti i sottesi di quest’opera che si colloca a metà tra la fiaba e la parabola religiosa.
Il nesso tra il testo di Gunnarsson e le Sacre Scritture è esplicito: nelle prime pagine viene citato un passo di Matteo che narra l’ingresso di Gesù a Gerusalemme; i riferimenti alla figura di Cristo sono diversi, così come cristiana fino al midollo è l’idea di un uomo mite che va alla ricerca delle pecorelle smarrite. Ma non è un legame semplice, piatto: il rapporto con la fede è sofferto, dubbioso, costituisce sì un pilastro della storia narrata, ma è un pilastro che a tratti sembra vacillare, come mosso da un terremoto interiore.
In sostanza, questo racconto è la cronaca appassionata della ricerca di un senso, del tentativo di essere utili, di sentirsi vivi e non sopravvissuti, di realizzare qualcosa di buono nonostante i fallimenti, reali o presunti, che pesano sulle nostre teste; nonostante la rinuncia ai sogni giovanili, abbandonati nel gelido silenzio delle montagne.
Chi è Benedikt, in fondo?
È un uomo come tanti che cerca di strappare una vittoria alla sconfitta, sempre pronta ad aleggiare sulle vite degli uomini.
È lo sforzo di vivere con gioia, è la parte pura, ingenua e per questo bastonata che vive in ogni anima, anche se nascosta.
Benedikt è un cristo che non può fare miracoli, è un uomo che va alla ricerca delle pecore smarrite nella speranza di non perdere sé stesso. È la persona tenace nonostante la sfiducia, la persona mite che sembra sconfitta, e in parte si sente tale, ma che in fondo ottiene la sua umile vittoria.
Benedikt ci parla perché ci appartiene, fa parte della nostra cultura cristiana. Lascia un segno, ci tocca dentro. E questo ha più peso di una trama ricca, frutto di tanto mestiere.
Non artigianato della parola ma puro e semplice atto di comunicazione. O forse di comunione.
Come a voler dire che nonostante gli sforzi e le delusioni, nessun Benedikt in fondo è davvero solo. E niente è perduto.
Sull’Autore:
Gunnar Gunnarsson (1889-1975), plurinominato al Nobel, è uno dei grandi nomi della letteratura islandese. Nato in una famiglia povera ma deciso a seguire la sua vocazione di scrittore, si trasferisce in Danimarca dove riesce a terminare gli studi e comincia a scrivere romanzi che presto gli procurano fama internazionale e i più prestigiosi riconoscimenti. Tutte le sue maggiori opere sono state scritte in danese, tra cui Il pastore d’Islanda, La chiesa sulla montagna, L’uccello nero, e solo in seguito tradotte in islandese dall’autore stesso, che torna in patria nel 1939 per rimanervi fino alla morte. Il pastore d’Islanda ha avuto svariate letture e interpretazioni sia in Islanda che all’estero.
(Biografia tratta dal sito dell’editore)
Aniello Troiano
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