La prima volta che ho parlato di The OA con qualcuno, questo qualcuno (che aveva già visto tutte le puntate) me l’ha descritta come un’esperienza televisiva più che una serie tv. Capire cosa questo possa significare risulta difficile sia prima che durante la visione, ma a maratona conclusa posso dire che, effettivamente, ‘esperienza’ risulta il termine più appropriato per un prodotto come questo. Un prodotto che, tra l’altro, è estremamente difficile da spiegare, da raccontare, se si vuole rimanere spoiler free.
The OA è quella che potremmo definire, almeno fino a un certo punto, una serie di genere soprannaturale. La storia si apre infatti con il ritorno di una ragazza, Prairie, la OA del titolo (PA in italiano), ritrovata dopo essere sparita nel nulla per sette anni. Oltre a una serie di cicatrici sulla schiena, che sembrano frutto di torture, e a un silenzio circa i fatti che l’hanno vista protagonista, la ragazza porta con sé anche un miracolo: quando è sparita era cieca… e ora ci vede benissimo.
Ma cosa è successo durante questi sette anni? Dov’è stata tutto questo tempo? Cosa le hanno fatto? E come mai ci vede, ora?
Questi misteri verranno svelati a un po’ per volta lungo gli otto episodi, intrecciandosi pian piano a fatti soprannaturali (in particolare si parla di esperienze pre-morte) e a una storyline ambientata nel presente, dove la neo-vedente Prairie stringe amicizia con cinque persone particolari, ognuna delle quali ha un vissuto piuttosto complesso, travagliato, e che in questo nuovo gruppo troverà una sorta di equilibrio.
Ma perché considerarla un’esperienza, piuttosto che una ‘semplice’ visione?
Innanzitutto bisogna specificare che The OA si prende i suoi tempi. Scorre lentamente (basti pensare che la sigla iniziale viene riprodotta a fine della prima puntata, come a indicare che fino ad ora si era trattato di un lungo prologo) e non basa il suo fascino sui colpi di scena, come ci si potrebbe aspettare, ma più su una narrazione tranquilla e a tratti straniante.
Quello che sconvolge più di tutto, però, è il finale. Perché l’ultima puntata cambia tutto: cambia i punti di vista, le idee, le ipotesi. Tutto viene alterato da quell’ultima ora di storia. C’è quindi una tipo di soddisfazione diversa da quella che ci si potrebbe aspettare come spettatore. Non si reagirà con un “Splendida!” o un “Orrenda!”, ma più verosimilmente con un “Cos’ho visto fino ad ora?” La mia attesa, la mia attenzione, la mia fiducia è stata premiata oppure no?
Il fatto è che siamo abituati a una storia che va pian piano costruendo certezze nello spettatore – certezze che troveranno più o meno conferme nel finale, ma che comunque rappresenteranno una fine “logica”. Potrebbero esserci grandi colpi di scena, certo, ma in un certo senso tutto era già lì, pronto a esplodere, e comunque il fine principe è in genere quello di deliziare lo spettatore. Qui, invece, le certezze crolleranno e non lasceranno il posto ad altre. Non si vuole stupire chi sta guardando, si vuole colpirlo con una bastonata.
Ma forse…
Forse tendiamo a soffermarci troppo sull’apparenza delle cose.
Una volta concluso The OA, credo sia necessario lasciarlo sedimentare un po’. Solo aspettando, infatti, sono giunto alla conclusione che il cuore della storia è, più che la storia stessa, la narrazione. Così come noi, osservatori, veniamo pian piano affascinati da questa protagonista apparentemente fragile, estremamente ‘pura’, i co-protagonisti di Prairie vengono pian piano affascinati dalla sua storia. E poco importa se alla fine ogni certezza verrà ribaltata, perché quello che succederà in quell’ultima ora sarà il frutto di quanto è stato narrato da Prairie.
The OA, in pratica, non vuole parlare davvero di ritorni miracolosi o di luci in fondo al tunnel, ma di storie. Quanto è grande il loro potere? Quanto possono influenzare le nostre decisioni? Possono cambiare le nostre vite? E se sì, in che misura? Sembrano queste, a visione conclusa, le domande ‘importanti’ di The OA.
Quello che poteva essere, in somma, una grande storia dai risvolti soprannaturali si è rivelata essere una grande storia sulle storie e sul raccontarle. Non basta forse questo a concederle il privilegio di una visione?
Andrea Storti