Ci sono voluti tre film per riuscire a vedere, sul grande schermo, un’avventura che risultasse davvero degna di uno dei supereroi più amati di sempre, di una delle più iconiche figure nate nel mondo dei comic americani. Sto parlando, ovviamente, di Wolverine.
In diciassette anni passati sul grande schermo, Wolverine è sempre uscito vittorioso dalle interpretazioni più corali, ovvero i film degli X-men, ma quando si è trattato di renderlo protagonista di avventure in solitaria… niente. Nessuno era riuscito a regalare la giusta storia al personaggio.
Ora, però, qualcosa è cambiato.
Sarà stato il successo di Deadpool, sarà stata la proposta di un budget ridotto pur di poter seguire la storia che si voleva, sarà che Hugh Jackman ha dichiarato che questo è il suo ultimo film nei panni dell’Arma X e che quindi voleva, giustamente, concludere in bellezza, fatto sta che il risultato è un grandissimo film.
È un film in un certo senso fatto in piccolo, perché tutto il contesto cui siamo abituati con i cinecomic viene qui ridotto. Non si deve salvare il mondo, ma ‘semplicemente’ qualcuno. Non è tutto l’universo a essere coinvolto, ma un gruppo sparuto di persone. Non c’è il cattivo più potente di tutti i tempi e non c’è una squadra di venti eroi pronta a combattere, ma solo una società che deve riprendersi una cosa e un Wolverine in decadimento che non vuole dargliela. Siamo in un contesto in cui si vuole tenere una famiglia unita, a ogni costo, e non dentro un grande circo che vuole salvare tutti.
L’altro elemento importante è il decadimento.
C’è un Wolverine vecchio, sfinito, lentamente avvelenato da qualcosa, forse lo stesso adamantio impiantatogli nello scheletro. Guarisce a fatica e i suoi poteri rigeneranti sono allo stremo. Poi c’è il professor Xavier, vecchissimo, con problemi di stabilità mentale che, accoppiati con grandi poteri psichici, non va proprio a meraviglia.
E poi la morte. Questo è un grande film sulla morte. La morte avvenuta (non ci sono altri x-men, infatti). La morte in arrivo, di Xavier e Wolverine stesso. La morte cacciatrice, perché i protagonisti saranno costantemente braccati da essa e, anzi, la loro impotenza, la loro vecchiaia verrà continuamente messa dinanzi alla forza della giovinezza.
C’è, insomma, uno studio sulla fine, e mi sembra l’ideale per una pellicola che è il saluto finale di un attore alla sua controparte cinematografica, l’ultimo addio a una combinazione fortunatissima, quella Jackman/Wolverine, che può senza dubbio essere paragonata a quella Harrison Ford/Indiana Jones.
Infine c’è X-23. Laura. La bambina che già si vede nei trailer, erede di Wolverine per poteri, perimenti a cui è stata sottoposta e ferocia nell’affrontare la vita. La sua è una fame di sangue e di libertà che, ironia della sorte, verrà limitata, almeno in parte, proprio da un vecchio Logan che vuole insegnarle a comportarsi. Una rivelazione. Dafne Keen, l’attrice che le presta il volto, si dimostra la scelta perfetta e riesce, così giovane, a incarnare dolcezza e rabbia sanguinaria con grande sapienza.
Logan, insomma, è un film che ripensa un genere, quello supereroistico, in una chiave molto più umana e più drammatica. Prende spunto dalla saga fumettistica del Vecchio Logan, dai western (sia in termini visivi che di immaginario di onore) e da quel cinema più crudo e violento che calza a pennello su dei personaggi di questo tipo. E il risultato è davvero ottimo.
Ma forse il segreto è semplicemente che, almeno per una volta, si è deciso di regalare agli spettatori non una serie infinita di mirabolanti effetti speciali, ma una storia, piccola e intima. Perché, diciamocelo, è stupendo vedere una lotta tra superumani con esplosioni di qui, esplosioni di là, superpoteri megagalattici sfoggiati a destra e a manca, ma se poi non c’è una buona storia sotto, qualcosa che sappia regalarti delle emozioni vere e non solo qualche wow visivo, quel film non varrà nulla.
Ora, almeno nelle nostre teste, Wolverine è davvero immortale.
Andrea Storti