Chiunque abbia frequentato un corso, un master di scrittura creativa o un gruppo letterario, probabilmente conosce bene le regole di un workshop. La struttura del workshop fu definita durante i primi anni del Novecento, quando la scrittura creativa entrò a pieno titolo tra le materie d’insegnamento nei college americani. Di solito il workshop è presieduto da un moderatore che, a seconda del tipo di gruppo in cui si trova, ricopre un ruolo diverso, per esempio quello dell’insegnante, nel caso di un corso. Se il corso si svolge in ambito universitario, il mediatore è un professore o tutor. Altrimenti, nei casi più informali, ogni gruppo necessita un mediatore che si occupi di stabilire la tempistica e le fasi da cui è scandito un incontro. Spesso, nei gruppi letterari più “democratici”, il ruolo del moderatore non è svolto da un’unica persona, ma da più elementi che si concentrano su attività diverse – chi si occupa dell’ordine del giorno, chi fa il tesoriere e così via.
Posto che il nostro scrittore alle prime armi abbia deciso quale strada intraprendere, potrebbe risultare molto utile avere un’idea di cosa significhi affrontare il workshop di scrittura. Innanzitutto, il moderatore si occupa di mantenere ordine in un gruppo di membri che partecipano attivamente alla discussione, esprimendo le proprie opinioni sul materiale letto e analizzato durante l’incontro. Il workshop può avvenire con uno spirito molto diverso a seconda del tipo di situazione. Per esempio, recentemente mi è capitato di prendere parte a una masterclass con lo scrittore pisano Luca Ricci, organizzato dalla Scuola Carver di Livorno. Luca Ricci analizzava alcuni racconti, sia i propri che quelli di grandi autori come Raymond Carver, e poi, dopo la lettura dei pezzi scritti dai partecipanti al workshop, esprimeva le proprie opinioni sui racconti. La lettura dei racconti di ogni singolo partecipante poteva essere commentata dagli altri, ma era lui, lo scrittore riconosciuto, nonché l’insegnante, a detenere il ruolo più importante, e il cui giudizio contava più di tutti.
Se in un workshop tutti i partecipanti sono “sullo stesso piano”, ogni partecipante commenta i racconti, a volte in modo ordinato, o, più spesso, chi lo desidera alza la mano e dice la sua. In Sul Mestiere di Scrivere di Raymond Carver, dove sono trascritte alcune lezioni del famoso scrittore americano, è l’opinione di Carver a contare più di quelle degli studenti, ma i suoi alunni commentano liberamente i racconti dei compagni di classe.
Alcuni professori e tutor, invece, sono convinti che il giudizio dell’insegnante debba arrivare solo al momento del “voto”. Questi insegnanti non danno pareri e critiche, lasciando che siano gli studenti a incoraggiarsi tra loro o a suggerire eventuali soluzioni diverse.
A lungo si è dibattuto sul valore didattico del workshop, che contraddistingue l’insegnamento della scrittura creativa da quello delle materie accademiche più tradizionali, e gli scrittori stessi hanno pareri molto diversi al riguardo, non solo sull’effettiva utilità dell’insegnamento della scrittura, ma anche sui metodi didattici più efficaci. Lo scrittore e Premio Pulitzer Michael Cunningham, direttore del programma di scrittura creativa al Brooklyn College, sostiene che nei workshop più scadenti lo studente si presenti col proprio lavoro tra le mani e gli altri gli dicano a turno che cosa ci sia di sbagliato in ciò che ha scritto. Proprio negli Stati Uniti, la patria indiscussa dell’insegnamento di questa materia in ambito accademico, molti docenti stanno sperimentando nuove forme e metodi didattici nelle facoltà di scrittura. Presso la University of Westminster di Londra, lo scrittore Toby Litt insegna il suo corso di Fiction attraverso lo studio della tecnica di grandi opere classiche e contemporanee. Ignora volutamente le famose “regole del workshop” di cui sopra e legge i pezzi degli studenti da solo, a casa, per poi dare il suo feedback in privato, senza costringere gli alunni a leggere i loro racconti ad alta voce o ad ascoltare i pareri di ogni singolo compagno di classe.
Ho sentito spesso parlare di un certo scetticismo nei confronti del workshop, perché l’opinione di un non-addetto ai lavori, di un semplice collega aspirante scrittore, non conta quanto quella di uno scrittore già pubblicato o di un insegnante. Probabilmente la verità è che ogni opinione conta, dal momento in cui i libri vengono letti da tutti, non solo dagli intellettuali. Questo potrebbe voler significare che nell’insegnamento di una materia tanto complessa come la scrittura, uno solo di questi metodi didattici non sia abbastanza. Alcuni college americani si sono distinti per la grande sperimentazione di nuove tecniche di insegnamento – per esempio, alla University of North Carolina gli studenti scrivono dialoghi che poi vedranno recitare da attori in teatro per capire se effettivamente funzionino. Prendono in analisi scene di film e seguono corsi per allungare e sviluppare una storia senza che esaurisca la sua potenzialità narrativa. Intere settimane vengono dedicate ad ospitare scrittori famosi che creino un ponte verso i giovani studenti e aspiranti scrittori. D’altronde, molti professori hanno un approccio critico nei confronti dell’idea di workshop tradizionale. Michael Cunningham, ancora, sostiene che la natura del workshop abbia contribuito a creare autori che imitano altri scrittori il cui lavoro è universalmente riconosciuto: prima troppi Carver, dice Cunningham, e poi troppi Denis Johnson.
Christopher Tilghman della Virginia sostiene che i corsi non necessitino delle regole tradizionalmente riconosciute del woskhop, e Ethan Canin, laureato all’Iowa Writers’ Workshop, vi insegna adesso con uno spirito completamente diverso rispetto ai tempi in cui era lui ad essere studente. La competizione che nasce all’interno di un workshop può severamente minare l’autostima di un aspirante scrittore, ed è per questo che Canin non sviluppa le lezioni attraverso la discussione del lavoro degli studenti, ma attraverso una tecnica di analisi scientifica della struttura dei pezzi di narrativa. Il famoso scrittore Leslie Epstein della Boston University, invece, fornisce a ogni studente un documento in cui sono elencate tutte le regole che considera importanti per scrivere bene. E’ tuttora famoso per la sua severità e per la difficoltà che hanno i suoi studenti a raggiungere voti alti. Ben Marcus della Columbia e Michael Cunningham del Brooklyn College sostengono invece che uno scrittore sarà giudicato duramente tutta la vita, ed è per questo che i corsi di scrittura rappresentano il luogo in cui lo stile di uno scrittore si sviluppi al meglio e in libertà. Moltissime facoltà di scrittura, comunque, si sono distinte nelle sperimentazioni e in specializzazioni particolari: alcune enfatizzano l’insegnamento della popular fiction (romance, thriller, horror etc), altre invece si concentrano su corsi in insegnamento della scrittura, altri ancora sulla scrittura di viaggio e altri invece richiedono che gli studenti sostengano severi esami di letteratura inglese e americana.
Quali che siano le tecniche impiegate, lo scrittore che desidera approfondire la propria conoscenza di questo mondo e voglia sottoporre il proprio lavoro a un occhio esterno può trovare una grande utilità in tutte queste situazioni. Per quanto il giudizio di un insegnante o di un collega aspirante scrittore possa essere utile, l’elemento più importante per lo scrittore alle prime armi è quello di condividere e donare il proprio lavoro, preparandosi a un futuro in cui l’opinione dell’altro, che sia un lettore, un agente o un editore, può determinare il destino della sua opera.
Rachele Salvini