Il fascino degli anni ‘80
Negli ultimi anni abbiamo vissuto un ritorno di fiamma per gli anni ’80; capelli cotonati, colori vivaci e giacche con spalline riescono ad avere una presa non indifferente anche su chi quel decennio l’ha vissuto solo attraverso Hollywood (o i video musicali di Robin Sparkles, si sa che in Canada gli anni ’90 erano i veri anni ’80).
Già Stranger Things, telefilm rivelazione del 2016, ha dimostrato che non bastano le scelte del reparto costumi e props, né la saltuaria trasmissione di immagini di repertorio, a creare la sensazione di genuinità; è solo il connubio tra una buona regia e sceneggiatura che riesce a trasformare un prodotto girato con mezzi all’avanguardia nella credibilissima fotografia di una società scomparsa già da quasi tre decenni.
Creato da Liz Flahive e Carly Mensch e ambientato nella Los Angeles del 1985, Glow si propone come una finestra su un mondo considerato fino a quel momento prettamente maschile: il wrestling.
Wrestling e cattive decisioni
Ruth Wilder (interpretata da Alison Brie) è una delle tante attrici che hanno abbandonato la sicurezza di una realtà familiare di provincia per inseguire lo sfavillante sogno di Hollywood. Talentuosa ma disoccupata, si trova spesso costretta a dover fare affidamento su incarichi saltuari e generosità dell’amica Debbie (Betty Gilpin), attrice di soap che ha deciso di rinunciare alla carriera per dedicarsi completamente alla vita domestica.
Quando il fondo si avvicina a velocità vertiginosa, il programma ideato dal regista Sam Sylvia (Marc Maron) diventa un’inaspettata rete di sicurezza che permette a Ruth di continuare a lavorare e vivere nella città delle stelle.
Tra incidenti di percorso, una sfiorata cancellazione per mancanza di fondi e difficoltà personali, le quattordici aspiranti wrestler riescono a tenere il pubblico incollato alle poltrone (e agli schermi), aprendo la porta a qualcosa che va ben oltre la semplice esibizione sportiva e l’intrattenimento per famiglie: la lotta tra chiaro e scuro, inciviltà e conoscenza… e libertà contro la minaccia rossa!
“The Gorgeous Ladies of Wrestling” o “GLOW”
Netflix non è stata la prima emittente a mostrare le Grandiose Lottatrici del Wrestling in tutto il loro splendore. Nel dicembre del 1985 venne registrata la prima puntata della serie ideata da David McLane con il supporto della WWA.
Lo show è andato avanti per quattro stagioni, con un totale di 104 episodi dal 1986 al 1990. Le donne scelte nel corso del casting sono state sottoposte ad allenamenti intensivi per sei settimane prima di procedere con il vero e proprio spettacolo, che alternava incontri ben coreografati a momenti di puro spettacolo e comicità.
Più tardi parte del cast originale si è mosso da Los Angeles a Las Vegas, accogliendo tra le proprie file ballerine provenienti dai club locali.
Il successo della serie ha spinto 30 network, non solo statunitensi, ad acquistarne i diritti; un motivo in più per coinvolgere nel progetto Jackie Stallone. Sì, come Stallone. Quello Stallone.
Ma tutte le cose belle sono destinate a finire e la quinta stagione, a causa di problemi di carattere finanziario, non è riuscita a vedere la luce del sole. Il programma ha subito la cancellazione, è vero, ma le Grandiose Lottatrici del Wrestling non sono state dimenticate da un pubblico in grado di apprezzare la ventata di novità portata dalla trasmissione.
Stereotipi e corde rosa
Dalla sua primissima apparizione in camera Ruth dimostra di voler rompere con i soliti schemi di una Hollywood che preferiva relegare la donna al ruolo della segretaria, mai del dirigente con le battute migliori. Come qualcuno una volta ha detto “la donna deve essere ammirata, non ascoltata” e chi non è d’accordo può continuare a mangiare cereali per cena fino al prossimo provino.
Il personaggio di Ruth non è l’unico a combattere quella che sembra una battaglia persa in partenza e i ruoli scelti da Sam per le sue lottatrici ne sono la prova: Welfare Queen è una donna di colore che segue gli stereotipi in voga nella cultura americana del tempo, un parassita della società che vive da pashà di sussidi statali. Cherry “Junkchain” Bang, che negli anni ’70 ha vissuto un momento fortunato grazie all’aumento dei ruoli per le donne di colore nelle produzioni cinematografiche, si trova adesso a dover interpretare (almeno per gli spettatori) il tipico membro delle gang afroamericane con catena d’oro e tuta fluo.
Il pubblico associa più facilmente gli occhi a mandorla ai rossi cinesi che a uno qualsiasi degli altri numerosissimi gruppi etnici presenti sul territorio asiatico; simile il destino di Arthie Premkumar (interpretata da Sunita Mani), bollata dalla produzione dello show e successivamente dal pubblico con l’appellativo di terrorista, complice il colore della sua pelle e l’identità del suo personaggio sul ring.
E mentre le discriminazioni di razza e sesso in questi casi risultano evidenti, una delle sorti più tristi tocca probabilmente alla star dello show Debbie, Liberty Bell: è una bella donna del ceto medio, ha avuto un discreto successo grazie alla carriera nelle soap, eppure manca sempre qualcosa nella sua vita. La decisione di abbandonare la recitazione può davvero considerarsi sua o deve essere attribuita all’influenza del marito, sempre pronto a ricordarle quanto ridicolo sia ciò che a lei sta a cuore?
Quattordici donne, ognuna con la propria battaglia da combattere. Ciò non rende però GLOW una serie indirizzata unicamente a un pubblico femminile. I temi e le situazioni che di volta in volta vengono presentati riescono a coinvolgere la totalità degli spettatori, senza far distinzione di sesso, estrazione sociale o razza.
Non sappiamo ancora chi tra l’americana paladina dei diritti, Liberty Bell, e la sovietica Zoya la Destroya riuscirà a riconquistare la corona, ma una cosa è certa: GLOW è una serie piena di potenzialità e abbagliante e possiamo soltanto sperare che la seconda stagione riesca a reggere il confronto con il suo scoppiettante inizio.
Christine Amberpit