Il 24 febbraio 2015, poco dopo l’uscita di Sottomissione, Rivista Fralerighe ha pubblicato una recensione di Simona Tassara, a mio parere molto valida, che vi invito a rileggere. Per una scelta ben precisa non pubblichiamo articoli doppione. Ci sembra una forma di ridondanza, un modo per sprecare tempo e spazio davanti a un panorama letterario che straripa di nuovi titoli, pubblicati in un numero tale che, dedicare tre o quattro recensioni a un classico già conosciuto e amato, ci sembra uno spreco di tempo e di forze.
Ma questa è una regola, e come tutte le regole ha le sue eccezioni.
Quando un romanzo è così strettamente legato all’attualità, quando per leggerlo aspetti mesi, per poter affrontare la lettura al meglio, dopo un corso universitario di Storia dei paesi islamici, quando un testo resiste a quasi tre anni di nuove pubblicazioni, vuol dire che forse vale la pena di sospendere la regola, almeno per una volta.
A distanza di più di trenta mesi, Sottomissione, ben lungi dall’essere stato smentito dai fatti, esercita una forza ancora più intensa sul lettore. Tralasciando le facili previsioni sulle elezioni politiche del 2017 (destra radicale al ballottaggio ma sconfitta da un politico sostenuto dal centrosinistra), risulta chiaro che l’attentato di Charlie Hebdo, strettamente legato a questo libro per un curioso scherzo del destino, sia stato solo la prima, tutto sommato modesta, ondata di violenza jihadista in Europa, e in Francia in particolare.
Si potrebbe essere tentati da una lettura profetica di questo romanzo, quasi come se fosse l’anticipazione di un futuro minaccioso e imprevedibile, o dalla speranza di poter apprendere qualcosa in più su questa fede, l’Islam, che dal racconto frammentario dei mass media appare come un groviglio caotico e sanguinario. Speranza che viene alimentata, in un certo senso, già dal titolo scelto: forse non tutti sanno che Islam – da pronunciare con l’accento sulla a – si traduce proprio come Sottomissione (al volere di Allah, Il-Dio, si intende).
Partendo da questo semplice assunto, potremmo pensare che il fulcro di questo romanzo sia appunto la fede islamica, al tempo stesso vicina eppure irrimediabilmente lontana.
E invece no.
Il vero oggetto del romanzo non è l’Islam, né tantomeno la possibilità di una sua avanzata – democratica o meno – nel pieno dell’Europa, in quella Francia un tempo patria degli Illuministi. Leggerlo dopo aver studiato la storia dei paesi islamici non mi ha dato particolari vantaggi, per il semplice fatto che qui si parla di (fanta)storia francese, o al massimo europea.
A Houellebecq interessa l’uomo occidentale, col suo declino ricercato, sudato, e forse finalmente ottenuto. Gli interessa vedere cosa hanno prodotto le illusioni degli ultimi secoli, capire se l’albero è ormai pronto per cadere o se invece le radici reggono ancora un po’. A ben vedere il pensiero di Nietzsche, la percezione acutissima del vuoto lasciato dall’uccisione di Dio, gioca un ruolo molto più importante di Maometto in questo volume.
Se fosse stato un saggio avrebbe potuto intitolarsi Studiando Huysmans, oppure Decadenza occidentale, o Parigino nichilista, per quanto ne so. Sono titoli brutti, privi dello stesso fascino, ma molto più esplicativi per quel che riguarda il contenuto.
Sia chiaro, non dico questo per muovere una critica al romanzo: non sono rimasto per nulla deluso, anzi, è bellissimo. Davvero molto bello. Ed è un bene che un romanziere francese non si sia improvvisato esperto dell’Islam, sfornando un librettino insulso giusto per cavalcare l’onda. Certo, l’onda la cavalca lo stesso, e in pieno, ma lo fa con un libro valido, un romanzo che ha il respiro ampio del classico. Sottomissione non morirà nel giro di qualche anno. Non finirà nel buco nero della memoria. Io credo che tra decenni sarà ancora letto, e magari studiato. Non a scuola, troppo duro, troppo spinto nelle scene di sesso, ma magari all’università sì.
Insomma, continuerà a vivere. Ed è questo che conta.
Conta il modo con il quale ci conduce per mano attraverso la vita del protagonista, François, un uomo chiuso in sé stesso, indifferente, alla ricerca di palliativi con i quali tamponare il vuoto. Conta l’analisi spietata del suo mondo, diviso tra una magra carriera universitaria, storielle sordide e dolori fisici. Contano i suoi processi logici, il suo disfattismo, l’incapacità totale di recuperare le proprie radici, pur capendo che sarebbe quella, in teoria, la strada giusta.
Sinceramente trovo ridicole le polemiche scatenate su questo libro. Non le ho lette tutte, e mi permetto di sentenziare, ma mi è bastato leggerne alcune per capire che, in fin dei conti, il libro manco lo hanno letto.
Ora che l’ondata emotiva è passata, ora che le polemiche sono morte e sepolte, seppellite dall’avanzata incessante di nuove notizie, nuove stragi, nuove minacce, è arrivato il giusto tempo per (ri)leggere il libro, con lucidità. È questo il mio invito: andate oltre l’emotività, Charlie Hebdo, gli hastag e la paura di finire massacrati in un attentato.
Leggetelo.
Ne vale la pena.
Aniello Troiano