Sorriso smagliante color ciliegia e una innata propensione per gli scherzi: questo è il pagliaccio. Pantaloni giganti, naso a palloncino e un fiore che spruzza acqua appuntato all’occhiello il pagliaccio è un personaggio che si costruisce da sé, come ci insegna Hans Schnier, protagonista del romanzo più noto di Heinrich Boll, Opinioni di un clown. Bastano un po’ di biacca, del trucco e il saper far ridere la gente. Poco importa che sotto quella maschera bianca, da grattare via con la pomice, di allegria non ce ne sia neppure un grammo, perché di ciò che si nasconde sotto la maschera non è che ce ne importi poi molto.
Eppure, ogni tanto la sensazione che qualcosa di inespresso giaccia soffocato dal cerone, che il tic portato in scena non sia solo un vezzo artistico, ci fa dubitare della bontà della battuta. Della mano nascosta dal guanto da pagliaccio che si tende per accarezzare i nostri figli.
E ci fa venire in mente altri clown, veri o inventati non importa: tanto ogni leggenda ha sempre, in sé, un fondo di verità.
È il dilemma di chi osserva il proprio vicino e si domanda se sia davvero affabile come sembra. Se non nasconda qualche scheletro nell’armadio, reale o metaforico, o un coltello nella cintura. Se sia davvero umano o se sotto la maschera non ci sia che un grande spazio vuoto, una creatura che non siamo disposti a vedere senza urlare.
Forse il primo a mostrare che al di là della maschera sorridente e sempre allegra del pagliaccio può celarsi l’animo più nero, la creatura più disperata e il possibile omicida fu, nel 1892, Ruggero Leoncavallo con Pagliacci.
Opera lirica verista, Pagliacci porta in scena un protagonista geloso, violento e vendicativo, Canio, camuffato da innocuo buontempone quando sale sul palco recitando il ruolo che gli è stato cucito addosso: quello del pagliaccio. Ma quando la realtà supera l’illusione teatrale in crudeltà e ironia, a Canio non resta che confondere i due ruoli, e come Pagliaccio uccide, e uccide ridendo, di un riso isterico, feroce e terribile. Chiudendo poi quell’inutile vendetta, quella farsa virata in tragedia, con una battuta destinata a suscitare nel pubblico un brivido lungo a morire.
Anche il Joker, nemesi di Batman, è un pagliaccio dall’animo oscuro, un vate della crudele ironia, condannato a un sorriso perenne, a un buonumore senza fine che lo fa assomigliare al Gwynplaine di Hugo. Joker, è un ex chimico e cabarettista fallito secondo Alan Moore in Batman: The Killing Joke; un uomo comune che, a seguito di un terribile incidente, muta in una creatura assassina e folle; l’alter ego di un uomo mite e schiacciato dalla vita che ha scoperto quanto la realtà non sia che un’assurda, crudele giostra.
Come Canio, Joker incarna il pagliaccio impazzito, il clown tragico che non può smettere di trovare buffa e divertente – mortalmente divertente – la vita; questa sorta di palcoscenico sul quale si viene scaraventati senza uno straccio di copione, e non ci sono sipari che calano ma solo botole che si spalancano, di tanto in tanto, sul pavimento, risucchiando nell’oscurità coloro che recitavano senza saperlo.
Di tutt’altra pasta è la forma più nota di clown assassino, quella portata negli incubi dei lettori di tutto il mondo da Stephen King con IT.
Cosa oscura e millenaria proveniente dalle pieghe remote dello spazio ma affezionata alla forma clownesca di Pennywise, IT è un male che attira, lusinga, fa persino ridere, fa letteralmente sganasciare dalle risate, finché non si è troppo vicini per potersene liberare. Quello di Pennywise è il ghigno crudele che monta alle labbra quando accade qualcosa di sgradevole a chi non conosciamo. Pennywise è l’orrore che sa come vendersi, che affascina e seduce portando dalla sua parte coloro che hanno in sé l’oscurità perché diventino suoi vettori e offrendo in cambio al resto del mondo, a chi ancora ha fiducia nell’uomo e quindi possiede velleità da bistecca un bouquet di palloncini colorati come premio di consolazione.
E se ad alcuni il male rappresentato da IT può sembrare esagerato, val la pena ricordare che, negli anni in cui King scriveva il suo romanzo, l’America veniva a conoscenza delle gesta di un Killer Clown terribilmente reale: John Wayne Gacy.
Stupratore e serial killer, Gacy, in apparenza un ottimo membro della comunità, intratteneva i bambini in spettacoli di beneficenza nelle vesti di Pogo il Clown mentre accumulava cadaveri di adolescenti in cantina. Arrestato nel 1978, nel 1980 la giuria lo riconobbe colpevole di omicidio plurimo condannandolo a morte. Condanna che venne eseguita nel 1992. In attesa dell’esecuzione, Gacy trascorse quei dodici anni di reclusione spartendo il tempo tra l’invio di richieste di commutazione della pena e dipingendo. La maggior parte dei suoi dipinti ritraevano clown.
Per seguire il filo sanguinario che lega la storia alla leggenda ecco Capitan Spaulding, creatura di Rob Zombie che si è ritagliata un posticino tra i pagliacci assassini con i film La casa dei 1000 corpi e La casa del diavolo. Gestore di una stazione di servizio dotata di un sideshow nel quale mostra con orgoglio raccapriccianti deformità della natura, il clown interpretato da Sid Haig è sboccato, sessuomane, lercio fino al midollo. Le sue battute sono di dubbio gusto, ma il terrore che sa suscitare è autentico e rinforzato dalla maschera che smette raramente, come se ormai non fosse più un uomo ma solo l’incarnazione di un clown pluriomicida.
Così accade anche per Twisty personaggio principale di Freak Show, quarto capitolo della serie televisiva American Horror Story. Anche in questo caso, il clown muto dal sorriso esagerato è la forza assassina del suo giovane interprete, una maschera terrificante, sporca e sgradevole che non nasconde ma porta alla luce, fa prorompere all’esterno l’orrore fisico e mentale che Twisty si porta dentro.
Se poi, nonostante tutto, avete deciso di noleggiare comunque un costume da pagliaccio per far contento vostro figlio alla sua imminente festa di compleanno, forse vi converrebbe sincerarvi della sua provenienza a meno che non vogliate fare la fine di Kent, il protagonista del film di Eli Roth, Clown. Perché una volta indossato, potreste scoprire che non è così facile toglierselo di dosso e che, anzi, quel costume vi aderisce addosso come una seconda pelle. Una pelle non vostra, naturalmente, ma di un demone divoratore di bambini chiamato Cloyne.
E no, mi spiace dirlo, ma neppure lo spazio è sicuro per il coulrofobico che sia arrivato a leggere fin qui. Come dimostra la pellicola Killer Klowns from Outer Space dei Fratelli Chiodo. Piccolo gioiello del cinema dell’orrore anni Ottanta, KKFOS è una commedia horror che illustra l’invasione del pianeta Terra da parte di strani alieni antropofagi dall’aspetto clownesco, che prima imbozzolano gli esseri umani nello zucchero filato e poi se li bevono usando le cannucce. Il loro punto debole? Ovvio: il grosso naso rosso.
E così, ora magari vi ritroverete a pensare a quel quadro con il pagliaccio triste che avevate nella vostra cameretta. Uno di quei quadri dozzinali, venduti a pacchi dai negozi di casalinghi, che tappezzavano le camere da letto di infanti reticenti costringendo i bambini a fare i buoni e ad addormentarsi in fretta, prima che il clown cominciasse a sorridere, mostrando le lunghe, affilate zanne… Vi starete domandando cosa faccia ora quel pagliaccio, se ha trovato il modo di uscire dal quadro. Se vi aspetta, voltato l’angolo di un prossimo incubo, in un sogno che ha tutta l’aria di essere reale.
Esagerazioni, diranno alcuni.
Quegli “alcuni”, lasciatemelo dire, hanno davvero poca fantasia.
Federica Leonardi