Ho letto Jo Nesbø per la prima volta nel 2012.
Passeggiando davanti a una libreria fui attratto da una copertina: ritraeva una baita innevata su sfondo blu. Copriva un libro massiccio, lungo più di 700 pagine. Mi sembrarono troppe per un thriller e la cosa mi incuriosì.
Il romanzo in questione era “Il Leopardo“, sequel de “L’uomo di neve“.
La mia prima recensione per Rivista Fralerighe, a voler essere sentimentali. All’epoca mi piacque – forse anche perché macinavo gialli e noir con una passione che non ho più ritrovato – ma da subito notai alcune pecche dell’autore, poi confermate da “Il Pettirosso“. E fu così che la mia fase Nesbø ebbe fine.
Di quali pecche parlo?
E soprattutto, perché ne parlo?
Perché le ho ritrovate pari pari in questo film.
E di colpo ho ricordato come mai ho smesso di seguire questo scrittore.
Partiamo dal ritmo. Decisamente troppo lento per un thriller. Non ho letto il romanzo in questione, ma ho abbastanza dimestichezza con Nesbø da sapere che le sue storie potrebbero trarre più di un vantaggio da una sana sfoltita. Speravo quindi che le 500 e passa pagine de “L’uomo di neve”, una volta condensate in un film di due ore, avrebbero dato vita a un racconto più essenziale e veloce, più avvincente, più “americano”.
E invece no. Resta il taglio lento, decisamente scandinavo, introspettivo.
La tensione c’è? In qualche scena, sì. Ma sono pochi sprazzi di vita in una lunga distesa di neve, paesaggi mozzafiato e musiche d’atmosfera piatte, inefficaci.
E la trama? La trama è un classicone. Ve la racconto per sommi capi.
C’è un serial killer che va in giro ad ammazzare un determinato tipo di donne con lo stesso modus operandi efferato. Nei pressi di ogni scena del crimine lascia la sua firma, un pupazzo di neve, tozzo e inquietante. Alla base di tutto? Un grosso trauma infantile irrisolto. E il detective? Lo sfida il killer, ovviamente. Ed è così che, tra un archetipo e l’altro, la storia approda all’epilogo: anche questo classico, se non scontato. Non ve lo racconto, giusto per non dare il colpo di grazia al film.
Ma insomma, ci sarà qualcosa di buono?
Sì. Innanzitutto non è facile scoprire chi è l’assassino, e questo aiuta a ravvivare una storia già sentita. Quando il killer viene rivelato si ha una piacevole sorpresa. E in fondo è questo che vuole ogni amante del giallo: essere raggirato dal narratore in una sfida ad armi pari.
Poi l’attore protagonista, Michael Fassbender. Bravo, credibile, un buon Harry Hole. La sua interpretazione, sobria, mai caricaturale, restituisce un personaggio più umano e acciaccato del suo gemello letterario.
Infine, i comprimari. Sono tutti ben delineati, alcuni misteriosi, a tratti anche intriganti.
Nel complesso, un film mediocre, non del tutto sbagliato ma nemmeno riuscito. Meglio guardarlo da casa, con calma, giusto per passare due ore senza pretese. Magari in una serata nevosa, in inverno. Tanto per provare a immedesimarsi un po’ di più.
Aniello Troiano