Come già annunciato nel precedente appuntamento, in questo articolo affronterò l’analisi di Un oscuro scrutare (A scanner Darkly -1977), il mio preferito tra i romanzi di Dick.
Ambientato nell’allora futuro 1994, in una California caotica e segretamete controllata da un’autorità sibillina e dispotica, il romanzo affronta una tematica non estranea all’universo dickiano, aggiungendovi, tuttavia, maggiore spessore e qualche elemento di novità rispetto alla produzione precedente: l’uso – ma in questo caso sarebbe meglio usare il termine “abuso”- di droghe. Un oscuro scrutare narra la vicenda di Bob Arctor, un poliziotto della narcotici coinvolto in una operazione sotto copertura riguardante la circolazione di una nuova droga, nota come Sostanza M. Infiltratosi all’interno di un gruppetto di tossicodipendenti con lo scopo di poter, così, risalire fino alla fonte della sostanza, Bob è costretto a tenere segreta la propria identità anche sul luogo di lavoro, il distretto di polizia. La ragione di ciò è che le persone che controllano il traffico di Sostanza M sono talmente potenti da aver adirittura degli infiltrati all’interno della narcotici. Perciò, per permettere agli agenti sotto copertura di svolgere le proprie mansioni, Bob ed i suoi colleghi sono costretti ad indossare una tuta speciale, chiamata tuta disindividuante, la quale maschera le fattezze della persona che la indossa, mostrando agli altri una sorta di nube confusa generata da un insieme di tratti fisionomici riprodotti e mescolati a caso. Pertanto, dovendo nascondere la propria identità anche ai colleghi, Bob, quando indossa la tuta disindividuante, si fa chiamare Fred. Questa doppia vita, assieme all’abuso della sostanza M – che ha tra i suoi vari effetti collaterali la progressiva separazione dei due lati cerebrali con conseguente schizofrenia – porta Bob/Fred a credersi due persone distinte. Cosicché quando Fred, nascosto dalla sua tuta, osserva i nastri delle telecamere segretamente installate nella casa e scruta i movimenti di Bob, non comprende, in realtà, di stare spiando sé stesso.
Benché anche questo romanzo – come il già precedentemente recensito, Le tre stimmate di Palmer Eldritch – rientri in quella che da alcuni viene chiamata la “fase acida” di Dick, la quale fa riferimento alla presenza della droga come tema preponderante di questo periodo, Un oscuro scrutare getta una luce completamente diversa sull’argomento.
Siamo molto lontani dal tipico romanzo fantascientifico a cui Dick aveva, oramai, abituato il suo pubblico, anzi la presenza marginale di elementi fantascientifici renderebbe il romanzo più vicino alla corrente postmoderna, piuttosto che ad un genere ben definito. Già Le tre stimmate e Ubik, con le loro atmosfere particolarmente cupe ed una maggiore sofisticatezza dell’intreccio e delle tematiche, mostravano chiaramente i segni di una maturità ed un’inventiva artistica sempre più solide, ma è con Un oscuro scrutare che Dick, a mio avviso, raggiunge a pieno le proprie potenzialità.
Ancora una volta, parte importante dell’opera è il tema dell’identità, un’identità in questo caso scissa, scomposta. In questo romanzo, ogni persona nasconde un segreto, ogni carattere è incerto e la paranoia è il metro di giudizio dei pensieri del nostro eroe Bob/Fred, il quale, mano a mano che la vicenda si sviluppa, diverrà sempre più alieno rispetto agli altri, sé stesso ed il mondo circostante.
“Mentre vagava così senza una meta lungo le strade, insieme con ogni sorta di persone, gli succedeva sempre di avere una strana percezione della propria identità. Come aveva detto a quelli del Lions nella sala, quando non indossava la sua tuta disindividuante aveva l’aspetto di un drogato; parlava come un drogato; coloro che gli passavano accanto, senza dubbio, lo scambiavano per un drogato e reagivano di conseguenza. Altri drogati — ecco, lui si considerava già inconsciamente uno di loro, per esempio — gli lanciavano uno sguardo da «pace, fratello», cosa che ovviamente le persone perbene non facevano. Mettiti addosso la tunica del vescovo e la mitra, meditò, e vai in giro così abbigliato, e la gente si inchina e si genuflette e roba del genere, e cerca di baciarti l’anello, e magari il culo, e in un battibaleno eccoti vescovo. Per così dire. Che cos’è l’identità? si chiese. Dove ha termine l’atto?
Nessuno lo sa.”
È curioso notare il diverso tipo di linguaggio adottato da Dick in questo romanzo: vi è una presenza alquanto considerevole di usi gergali e costruzioni sintattiche molto più vicine allo stile del parlato rispetto a quello letterario. La scelta del linguaggio appare ovvia se si pensa all’intento di quest’opera: Dick intendeva descrivere lo stile di vita dei giovani “freak” della sua epoca, gente che lui aveva ospitato nella propria casa e che aveva imparato ad amare. Eppure, nonostante l’evidente affezione mostrata dall’autore in ogni sua pagina, Dick non manca di mostrare il lato oscuro della “cultura della droga”, delineando con grande forza il ritratto di un mondo ombroso, fatto di sospetti e paranoie. Tuttavia, neanche lo stile di vita “borghese” sembra essere una prospettiva allettante per lui.
“Fred, che era poi Robert Arctor, gemette nella sua tuta disindividuante e pensò, Che cosa tremenda.
Una volta al mese un agente in incognito della narcotici, a caso, veniva designato a parlare di fronte ad assemblee di teste vuote come queste. Oggi era il suo turno. Osservando il pubblico, si accorse di quanto detestasse i perbene. Essi stavano pensando quanto fosse bello tutto ciò. Col sorriso sulla faccia. Perché gli si offriva un intrattenimento.”
Le persone estranee al circuito della droga – chiamate “perbene” – vengono presentate, come in questo caso, soddisfatte ed ottuse, pienamente e ciecamente convinte della propria felicità.
Al contrario, sebbene emarginati, strani e disfunzionali, i “freak” presentatici da Dick appaiono più umani, dotati di sentimenti genuini e schiacciati da una comunità che li disprezza senza nemmeno conoscere cosa li ha resi quello che sono.
È anche su questa grande differenza sociale che viene affrontato il tema dell’identità: Bob, infatti, rappresenta l’animo “liberal” di Dick, mentre Fred il suo lato “borghese”. Se teniamo a mente la storia personale dell’autore, vediamo che gran parte della sua vita è stata una battaglia tra questi due tipi di persone: l’eccentrico scrittore di fantascienza o il rispettato autore mainstream; lo scapolo incallito o l’uomo sposato. Dick viveva sulla sua stessa pelle questo scisma.
Ma non solo in questi termini viene mostrata la dissonanza tra il mondo dei “perbene” e quello dei “tossici”: essa si può notare anche sull’uso dei termini. Gli amici della cerchia di Arctor sono gli unici ad essere chiamati per nome e cognome, mentre le altre persone vengono semplicemente identificate con nomi fittizi – e questo è il caso del capo di Bob/Fred, Hank –, o con il termine “perbene” o, per quanto riguarda i colleghi del protagonista, come nubi confuse e tute disindividuanti. Tutte le persone vicine al potere o, come nel caso dei perbene, le persone che lo accettano passivamente cedono la propria identità a qualcosa di inumano, orribile, onnipotente ed onniveggente, un oscuro potere celato nei luoghi più insospettabili.
“Qualsiasi cosa sia ciò che sta osservando, non è umano. Non secondo il mio metro, almeno. Non ciò che io riconoscerei come umano. Per quanto sia stupida, la cosa mi spaventa, pensò. Mi viene fatto qualcosa, ed è una cosa a farlo, una cosa che è qui nella mia casa. Davanti ai miei stessi occhi. Negli occhi stessi di qualche cosa: negli occhi di una cosa.”
Ma se da un lato vi è l’emarginazione, la solitudine e le paranoie dei “freak” e dall’altro la felicità ottusa, vuota e la spersonalizzazione dei “borghesi”, cosa potrà mai salvare questo mondo?
Bob e Dick ripongono tutte le loro speranze in Donna Hawthorne, una sorta di bellissima donna angelo drogata. È lei, con la sua vitalità a donare la speranza di cui questo mondo ha disperatamente bisogno.
“Gli prese la mano, gliela strinse, la trattenne; poi, d’un tratto, la lasciò ricadere.
Ma il contatto di lei perdurò, nel cuore di Bob. E vi rimase. In tutti gli anni a venire, i lunghi anni che avrebbe passato senza di lei, senza vederla senza udire di lei o sapere niente di lei, se fosse ancora viva o felice o morta o che altro, quel contatto gli rimase rinchiuso dentro il suo cuore sigillato, e non gli andò più via. Quell’unico contatto della sua mano.”
Ma è veramente così? Possibile che il potere non sia riuscita ancora a corrompere la sua innocenza? Invito tutti a leggere il romanzo per scoprirlo.
Stefano Corradi