Primo episodio della omonima trilogia, VALIS (1981), apparentemente un guazzabuglio confuso di misticismo, fantascienza e pop-culture, è in verità il riassunto più esauriente del percorso letterario, filosofico ed umano di un autore che ancora una volta si trova ad affrontare le stesse fatidiche domande, sebbene con un’atteggiamento del tutto nuovo. Siamo oramai abituati a vedere i protagonisti dei romanzi di Dick venire travolti da una incontrollabile e completamente inattesa piega di eventi. Sappiamo altrettanto bene che, come di consueto nell’opera dickiana, dietro ai più banali eventi, talvolta si cela quell’elemento che da solo è in grado di spazzare via il velo sottile che maschera la realtà. In questo frangente, VALIS non rappresenta una novità. Nuovo è il metodo con cui viene trattato l’argomento.
L’esaurimento nervoso di Horselover Fat cominciò il giorno in cui ricevette la telefonata di Gloria, con cui gli chiedeva se avesse del Nembutal. Lui le domandò perché lo volesse, e lei rispose che aveva intenzione di uccidersi. Immediatamente Horselover Fat balzò alla conclusione che quello fosse un suo sistema per chiedere aiuto. Era da anni un’illusione di Fat quella di poter aiutare la gente. Il suo psichiatra una volta gli aveva detto che per star bene avrebbe dovuto fare due cose: rinunciare alle droghe (cosa che non aveva fatto) e smetterla di cercare di aiutare la gente (cercava ancora di aiutare la gente).
La scittura di Dick sembra essersi asciugata notevolmente, ridotta all’essenziale, come pare evidente dall’incipit qui sopra mostrato. Un simile uso di frasi brevi, talvolta ridondanti e a tratti naif, crea un sensazione di straniamento nel lettore. Ad aumentare questa sensazione è il modo insolito in cui Dick usa il narratore eterodiegetico. Questa “terza persona”, in realtà, non è altri che lo stesso Philip Dick, camuffato sotto le mentite spoglie di Horselover Fat, il cui nome è la traduzione letterale (e alquanto arbitraria, oserei dire), del nome dello stesso autore (Philip, in greco significa “amico del cavallo”, mentre Dick, in tedesco, vuol dire “grasso”).
Io sono Horselover Fat, e sto scrivendo in terza persona per amore di obiettività.
Ciò che Dick sta cercando di dirci con questa dichiarazione è che desidera prendere le distanze dalla sua esperienza visionaria (il 2-3-74 citato nel precedente articolo), al fine di poterne parlare con maggiore distacco e oggettività. L’intermediario (Horselover Fat) è una sorta di filtro che permette a Dick di narrare la sua esperienza, rimuovendo l’enorme ostacolo rappresentato dalle emozioni suscitategli da simili esperienze. La verità è che, anziché semplificare le cose, la presenza di Fat non fa altro che complicarle. Per quanto Dick possa sentirsi sollevato dalla rimozione di un simile impiccio, il lettore, privo di un riferimento chiaro ed imprescindibile del romanzo (il protagonista), finisce per sentirsi spaesato. Ed il resto della narrazione, certamente, non getta in alcun modo maggiore chiarezza: tutta l’opera è costellata di citazioni da testi biblici, filosofici, freudiani e riferimenti a L’Esegesi di Fat (o di Dick), un vero libro dentro al libro, che dovrebbe funzionare come decodificatore dei simboli che, come schegge esplose dal vetro infranto dello specchio del reale, impazzano in ogni capitolo del romanzo.
Dick, oramai, è andato ben oltre la fantascienza. Avevamo già avuto le prime avvisaglie di una simile evoluzione con Le tre stimmate di Palmer Eldritch, mentre Un oscuro scrutare aveva ufficialmente travalicato i confini della fantascienza, ma, mai prima di VALIS, s’era visto un simile grado di sperimentazione nell’opera dickiana. È notevole vedere come un autore con un così grande ammontare di scritti alle spalle (centinaia tra racconti e romanzi), potesse continuare ad avere una tale forza immaginifica e innovatrice. Ma torniamo al romanzo, qual è la trama?
Questa volta preferisco prendere in prestito le parole di Antonio Caronia, saggista e noto critico italiano di fantascienza, che nel suo Philip K. Dick – La macchina della paranoia (2006), ha così riassunto la trama di VALIS:
Buona parte del romanzo è una tragicomica indagine teologica che funziona come un giallo: Dio è lo scomparso, e i due detective dilettanti devono rintracciarlo, decifrando gli indizi più improbabili.
Il fatto è che poi Dio viene trovato (o, almeno, un suo messaggero) ed è da questo punto in poi che la narrazione, in precedenza aderente alle vicende vissute da Dick, comincia a prendere tutta un’altra piega. Non mi dilungherò oltre nella descrizione della sinossi, in quanto piuttosto complicata ed inutile senza preliminari e dettagliate spiegazioni, troppo lunghe per uno spazio simile. Desidero soffermarmi su di una vicenda solamente, un brano secondario rispetto alla trama del romanzo ma che, tuttavia, ritengo racchiuda in sé un punto importante per l’autore.
Avevamo un sacco di vere domande a cui Fat non riusciva a dare una risposta. Il nostro amico Kevin iniziava sempre il suo attacco allo stesso modo. «Cosa mi dici del mio gatto?» chiedeva Kevin. Parecchi anni prima aveva portato a passeggio il suo gatto, verso sera. Quello sciocco non gli aveva messo il guinzaglio, e il gatto era schizzato sulla strada, proprio sotto le ruote di una macchina di passaggio. Quando aveva raccolto il corpicino, era ancora vivo, respirava fra una schiuma insanguinata e lo fissava con occhi pieni di orrore. Kevin usava dire: «Il giorno del giudizio, quando sarò chiamato davanti al grande giudice, io gli dirò: Aspetta un momento’, e tirerò fuori il mio gatto morto da sotto la giacca. ‘Come me lo spieghi “questo”?’ gli chiederò.» Ormai, diceva Kevin, il gatto sarebbe stato rigido come un tegame per friggere, e lui l’avrebbe tenuto per il manico, cioè per la coda, in attesa di una risposta soddisfacente.
Si tratta di una questione che, nel corso del libro, verrà toccata più volte. È un episodio davvero spassoso, uno dei più divertenti scritti da Dick, ma che, oltre all’evidente intento ironico, cela qualcosa di più. Nel romanzo avvengono diverse tragedie: Dick ci narra della morte di una sua amica, della esperienza vissuta in una struttura di igiene mentale, di un suo tentato suicidio. Abbiamo già abbondantemente discusso sulla biografia di Dick negli appuntamenti precedenti, pertanto sappiamo quali difficoltà abbia dovuto affrontare. Tutta la sua opera, alla fine, può essere riassunta nella ricerca di una verità, un significato nascosto dietro l’ordinario. Con VALIS e – in misura addirittura maggiore – con L’Esegesi, Dick non ha semplicemente continuato a cercare di trovare una risposta definitiva alla domanda “Cosa è reale?”, ma ha persino allargato il suo campo, aggiungendo “Perché?”. E quel gatto, seppur in maniera ironica, vuole essere la rappresentazione di quel “Perché?”: perché tutta questa sofferenza? Perché tutti questi dubbi? Perché è tutto così confuso? Del resto, per quale altra ragione cercare Dio, se non per trovare risposta a questa sola domanda?
Stefano Corradi