Di libri dedicati ai consigli per gli aspiranti scrittori sono piene le librerie. Dai volumi incentrati su “come scrivere un bestseller in dieci ore” ai veri manuali di scrittura, dai testi che raccolgono i pensieri dei grandi del passato a delle vere e proprie biografie letterarie.
Fin dal momento in cui decidiamo di voler fare gli scrittori, però, alcune domande ci assillano: esisterà una regola per scrivere un libro? C’è davvero una lista di cose da seguire per riuscire a completare la grande opera che si ha in testa?
Mi vien da pensare che la risposta sia no, non esiste niente del genere. Però esiste l’esperienza di chi ce l’ha fatta, e se quella determinata esperienza ci viene presentata come un percorso personale forse noi, poveri aspiranti scribacchini, riusciremo a ricavarne non tanto delle regole, quanto piuttosto dei consigli, degli sproni a continuare il nostro lavoro.
Zadie Smith, però, ha saputo fare un passo oltre. Anzi, un passo indietro, e lo ritengo un passo indietro indispensabile. La scrittrice britannica non ha infatti pubblicato un manuale di scrittura ma un libricino (edito da Minimum Fax) dove si pone una domanda che dovremmo tutti porci ben prima di metterci davanti alla pagina bianca di word: perché scrivere?
Già, perché ci ostiniamo a voler scrivere? Perché vogliamo diventare scrittori? Cosa pensiamo di voler fare? Cosa pensiamo di poter fare?
Perché scrivere raccoglie due interventi, una conferenza tenuta a Firenze in occasione del premio Von Rezzori, che dà il titolo al libro, e un articolo Fail Better, apparso sul Guardian. In entrambi gli interventi Zadie Smith cerca una risposta a questa domanda.
Sia ben chiaro, rispondere a una domanda come questa non è affatto facile e, a mio giudizio, non può nemmeno uscirne una risposta valevole a livello universale. Allo stesso tempo, però, vengono toccati molti punti che, credo, chiunque provi a scrivere avvicinerà, prima o poi.
Zadie Smith, chiarendo fin da subito (e in maniera divertente) le difficoltà dello scrittore nell’epoca moderna, intraprende un viaggio tra alcune citazioni di autori quali Nabokov, Von Rezzori e Orwell per cercare di capire se le motivazioni che spingevano questi grandi del passato possano ancora valere oggi.
Possiamo scrivere per la fama? Per la gloria? Possiamo scrivere per motivi politici, per tentare di cambiare il mondo? Lo scrittore ha ancora qualche rilevanza nella scena odierna?
“Quando mi siedo davanti al computer mi sento inutile” è, secondo me, un’affermazione un po’ più vicina alla verità. Perché ci sono poche cose che possono far sentire più ridicoli, in questo anno del signore 2011, del sedersi a tavolino a scrivere un romanzo. […] Il ruolo dello scrittore è diventato assurdo¹.
È interessante notare come l’autrice tenti di ridimensionare queste aspirazioni per avvicinarsi a una risposta, almeno nella prima parte, che ha quasi un sapore mitologico: scrivo per amore della parola. Suggerendo infatti che l’impatto della scrittura oggi è differente dall’epoca di Orwell, la Smith sembra voler dire che, in questo nostro nuovo mondo, non ci resta che scrivere perché amiamo le parole e ci piace l’idea di poter lavorare su una frase fino a renderla migliore. Scrivere per fare dell’artigianato lessicale.
Una risposta che potremmo pure trovare dissacrante perché sveste la figura dello scrittore di tutte quelle idee che ci eravamo fatti sulla sua importanza a livello socio-politico. Allo stesso tempo, però, si focalizza su una cosa che forse troppo spesso, ultimamente, tendiamo a lasciare da parte. Uno scrittore ha il compito di lavorare minuziosamente sulle parole, perché sono il suo strumento di lavoro e se non lo sa padroneggiare che scrittore può mai essere?
Il microlavoro della cura per la bellezza e l’efficacia di una frase è un salutare antidoto alle rivendicazioni pseudo-spirituali con cui a volte si difende l’atto della scrittura, e dell’essere scrittori.
Non ci si ferma comunque qui e nel secondo intervento si giunge anche a un’altra motivazione, in qualche modo ancora di stampo personale, e cioè che al di là dell’amore per il testo stesso, lo scrivere ci serve per dare forma al nostro mondo interiore. Questo non significa raccontare di noi, delle cose nostre, non significa scrivere un’autobiografia ma piuttosto creare delle storie che in qualche modo rappresentino la nostra visione, le nostre esperienze. Scrivere per capirsi, per accettarsi anche, e poi per condividersi col mondo. Ma per farlo al meglio, ovviamente, bisogna saper usare bene gli strumenti che si hanno.
Perché lo scrittore, secondo me, ha un unico dovere: quello di esprimere con precisione il proprio modo di essere nel mondo.
Perché scrivere è un testo molto interessante perché sprona l’aspirante scrittore a soffermarsi sui motivi che lo spingono verso la penna, o la tastiera. In queste pagine non si mentirà sulle difficoltà che lo scrittore incontra nel contesto editoriale attuale e si afferma con chiarezza come il lettore contemporaneo sia prima di tutto un consumatore e che un consumatore richiede un certo tipo di prodotto che forse non è quello che ci siamo idealisticamente immaginati. Allo stesso tempo, però, si chiede cosa la Smith voglia dalla scrittura, e di conseguenza cosa dovrebbe voler ogni autore.
Di spunti interessanti ce ne sarebbero poi molti altri, perché per arrivare a queste intuizioni Zadie Smith fa un lungo ed esplicativo percorso, soffermandosi anche sulla figura del lettore e del critico, specificando come la lettura sia un lavoro faticoso per chi la crea, ma anche per chi la fruisce. Di certo, però, a differenza di un classico manuale di scrittura, questo agile volumetto ci fornisce la scusa per porci la domanda più scomoda di tutte: perché lo stiamo facendo?
E voi? Perché scrivete?
La letteratura che amiamo è fatta dei frammenti scheggiati di un tentativo, non del monumento della riuscita. L’arte sta nel tentativo, e questo capire ciò che sta fuori di noi usando ciò che abbiamo dentro è fra i lavori intellettuali ed emotivi più duri che mai capiterà di fare.
Andrea Storti
¹ Tutte le citazioni sono tratte da Perché scrivere, di Zadie Smith, traduzione di Martina Testa e Marina Astrologo, Minimum Fax
Che articolo interessante e ben scritto, grazie. Ieri pensavo “non è mondo per poeti, questo, e mi domando se lo sia per i letterati in generale.” Non c’è spazio- mi sembra- per chi vuole fare della letteratura adesso, nel mondo reale, e mi chiedo sempre se ci sia spazio per gli aspiranti scrittori. Perché scrivere è una domanda che mi pongo. Pubblicare con una casa editrice da esordienti è pressocché impossibile- non che uno scriva per pubblicare. Non si scrive per pubblicare e non si scrive per la gloria: si scrive perché si ha qualcosa da esprimere, prima di tutto. Io scrivo perché è quello che so fare, perché mi piacciono le parole, mi piace la magia che si sprigiona quando crei una frase e la vedi impressa su superficie, mi piacciono le storie. Quello che mi chiedo è se ha senso farlo in una società che considera la letteratura come slegata dalla vita vera e, quindi, indegna di essere considerata. Perché se è indubbio che si scriva per se stessi, è naturale anche la voglia di condividere “il proprio essere nel mondo”… Una volta capito, ovviamente.