La volta scorsa sono stati presentati i temi tipici e gli elementi essenziali della prima prosa zamjatiana, tutte quelle componenti che in un secondo momento hanno portato alla nascita di quell’opera che è universalmente attestata come il grande capolavoro di Zamjatin, Noi (мы, 1924).
Scritto tra il 1919 e il 1920, Noi ebbe una gestazione alquanto difficile. Dati i temi trattati e il suo evidente contenuto satirico, il romanzo vide la luce per la prima volta in lingua inglese nel 1924. Fu una delle prime opere ad essere messa al bando nell’allora neonata Unione Sovietica e fu una tra le varie ragioni che portò la condizione letteraria del suo autore verso un rapido deterioramento, il quale lo costrinse ad emigrare a Parigi nel 1931, dopo una lettera aperta indirizzata direttamente all’allora segretario del PCUS (Partito Comunista dell’Unione Sovietica), Iosif Stalin. Circa vent’anni dopo, nel 1952, apparve la prima pubblicazione dell’opera in lingua originale, sebbene non in patria ma negli Stati Uniti. Noi, pertanto, può essere considerato un esempio di tamizdat, categoria che comprende le opere che i russi dissidenti ed emigrati portavano con sé e facevano pubblicare nella nazione che li accoglieva. Tamizdat, infatti, letteralmente si può tradurre come “pubblicare altrove.” Perché la Russia veda una prima copia di questo grande romanzo, bisognerà attendere la Perestrojka di Gorbačëv. La prima pubblicazione in Russia avverrà nel 1988.
La vulgata vuole che questo sia un pamphlet, una satira di come si sarebbe evoluto da lì a poco lo stato sovietico, soprattutto in epoca staliniana. Tuttavia, l’opera fu scritta tra il 1919 e il 1920, in anticipo di quattro anni rispetto all’instaurazione del regime staliniano conseguente alla morte di Lenin, perciò, i contorni sinistri dell’opera di Zamjatin assumono un carattere quasi profetico. Stalin doveva ancora prendere il potere, ma Zamjatin ne aveva già visti gli sviluppi. E in questo senso, Noi rimane infatti una satira, ma una satira di uno stato di là a venire.
Il romanzo comincia con il protagonista, D-503, che prende delle note, compiendo quello che appare, all’interno della logica del romanzo, un atto già di per sé sovversivo. In un mondo in cui i tratti individuali vengono disprezzati a tal punto da soppiantare i nomi con codici alfanumerici, non è concepibile che una persona scelga di scrivere una cosa talmente personale come un diario. All’interno dello Stato Unico ad essere dominante è il Noi, non l’Io che, al contrario, deve essere schiacciato, annientato. Esso non può esistere a sé, l’Io può essere solo in relazione al resto, una parte del tutto. Partendo da questi concetti, Zamjatin ha scelto di svolgere la narrazione tramite dicotomie che si realizzano tanto nelle idee quanto nello spazio della narrazione. Lo Stato Unico, infatti, è ben delimitato geograficamente e concettualmente. Esso appare come una città circondata da un Muro Verde, la soglia di un altro mondo, il luogo dove la natura è rimasta intatta e prevale l’elemento irrazionale sopra la perfezione del calcolo e la purezza della macchina. Questa contrapposizione viene in seguito arricchita da un insieme di elementi poetici che, come si vede, non scompaiono all’interno dello Stato Unico, ma vengono semplicemente asserviti ad una nuova funzione. La poesia diviene elemento di contrapposizione tra un prima dominato dal caos e un dopo divenuto finalmente regno della perfezione. In questo tema si può intravedere una critica anticipatrice a quello che diventerà il celebre “realismo sovietico”, il movimento ideologico che asservì la letteratura a mero strumento della propaganda totalitaria. Troviamo infatti all’interno dell’opera un poeta, R-13, ma un tipo di poeta alquanto curioso secondo i nostri canoni. Egli è perfettamente inquadrato nell’establishment e scrive sotto un mandato statalmente istituito, prestando i propri versi per decantare le sentenze proclamate dalla corte dello Stato Unico.
È interessante anche andare a notare come i codici adibiti all’identificazione delle singole persone si adattino perfettamente alla loro immagine. I-330, per esempio, come la sua lettera lascia intendere, è alta, magra e al contempo spigolosa, mentre O-90, appare tonda, bassotta e amorevole. Zamjatin ha scelto con cura i codici, richiamando quella attenzione alla geometria che aveva già mostrato nei suoi precedenti lavori. In questo romanzo, l’elemento “cubista” diventa ancora più preponderante, data la velocità e l’ordine straordinario con cui il mondo di Noi si muove. Le persone, infatti, non vengono mai descritte nel loro intero, ma a pezzi e quei pezzi richiamano spesso un qualche oggetto concreto. Per esempio, gli occhi di I-330 vengono paragonati a finestre chiuse, oltre cui si cela un mistero. Infatti, lei è membro di un gruppo ribelle noto come Mefi (abbreviazione per Mefistofele) il cui intento è rovesciare lo Stato Unico, impedendo il lancio dell’Integrale, una navicella spaziale progettata dallo Stato con l’intento di colonizzare altri pianeti e diffondere nell’oltrespazio i grandi traguardi raggiunti.
La lotta che sorge tra questo gruppo ribelle e lo Stato Unico rappresenta un’ulteriore dicotomia, la principale del romanzo: la contrapposizione tra Entropia ed Energia. La lotta cominciata da Mefi è atta a restituire il mondo alla sua condizione naturale, distruggendo la stasi causata dallo Stato Unico e restituendo quel caos rappresentato dall’ispirazione artistica, l’amore e la libertà di pensiero.
E non poteva non aderire a queste idee Zamjatin, la cui vita rappresenta un perfetto ideale di pensiero indipendente. In conclusione, cito un brano tratto da un appunto per un articolo scritto dallo stesso Zamjatin:
“Molto tempo fa, quando frequentavo il ginnasio, ci obbligavano ad andare a messa marciando al passo, per file di quattro. Nella cattedrale dove si celebrava la messa tutto era millenaria, noiosissima, consacratissima polvere: gli obliqui raggi polverosi, le colonne, i diaconi, i turiboli, gli scaccini che baciavano reverentemente la mano dell’arciprete e la voce nasale di quest’ultimo: ‘Inchinate il capo dinanzi al Signore!’… Una volta, un miscredente della settima classe tirò fuori da sotto la giubba un passerotto che svolazzò, sbattendo nella finestra, nelle icone, sull’altare… E l’arciprete ad agitare le braccia indignato, gli scaccini a correre qua e là.. Di quel passerotto si ricorderà per anni e anni chi s’annoiava a messa. Tutta la nostra letteratura critica è coperta di polvere millenaria ed è pia come la messa degli studenti ginnasiali. Quando io (un miscredente, lo confesso!) lasciai scappare il passerotto, quando pubblicai le due-tre paginette intitolate Io temo se ne parlò per un paio d’anni. Tutti dettero la caccia al passerotto irriverente. […] Fino a quando è vivo il pensiero umano non ci sarà l’entropia ideologica. Vi saranno rivoluzioni, tempeste, rivolte, esplosioni, uragani, a dispetto di chi desidera uno zeffiro permanente. Perché rimarranno sempre i ‘folli, gli eremiti, gli eretici, i sognatori, i ribelli, gli scettici’ ai quali appartiene la letteratura autentica.”
Ma stanno veramente così le cose? C’è ancora spazio per i “folli” in questo mondo? Il finale di Noi può aiutarci a riflettere su questo importante quesito.
Stefano Corradi