Quando si legge un libro di riflessioni sulla scrittura firmato da un autore di narrativa bisogna sempre stare attenti. C’è infatti il rischio che il lettore, e presumibilmente aspirante scrittore, possa prendere per oro colato tutto ciò che tra quelle pagine viene detto. Quello che però è vero per un autore, non necessariamente è vero per tutti.
Io penso sempre a King e al suo famosissimo consiglio sugli avverbi, ossia di usarne proprio col contagocce. Non ha tutti i torti eh, infarcire una storia di avverbi non porta a nulla di buono, in linea generale, ma allo stesso tempo questa regola non può valere per tutti, perché lo scopo di un altro scrittore potrebbe essere differente, perché un’altra storia potrebbe richiederne, o perché qualcuno, perché no, li potrebbe saper usare meglio.
Tutto questo per dire che quando si prende in mano un testo che vuole in qualche modo parlare della scrittura, bisogna anche tenere ben a mente che quell’autore sta parlando in primis della propria esperienza, che è personale e, in qualche modo, irripetibile.
Allo stesso tempo, però, è indubbio che determinate riflessioni possono giovare a tutti. Pensare che gli avverbi siano il male è sbagliato, ma non è sbagliato mettersi a riflettere sul ruolo che gli avverbi giocano quando IO mi metto a scrivere.
Un buon esempio in questo senso è il volume intitolato Lezioni di Letteratura, di Julio Cortázar. Questo libro racchiude le otto lezioni che nel 1980 Julio Cortázar ha tenuto all’università della California di Berkley. Sono quindi una trascrizione di quanto avvenuto in classe (e non una scrittura vera e propria) con tanto di domande da parte degli studenti.
Cortázar parla sempre per sé e di sé e ci tiene a specificarlo varie volte. Lui parla del suo lavoro e di come sia giunto ai suoi risultati, parla poi di alcuni punti comuni nella letteratura ispanoamericana, ma non sta raccontando di letteratura in generale. Non è questo il suo intento. Eppure riesce a donare moltissimi spunti di riflessione.
Ogni lezione tenta di affrontare un argomento differente, ecco allora che in un capitolo si parla di narrativa breve, in uno di romanzi, in un altro di scrittura fantastica e poi di quella realistica, di umorismo e di erotismo nelle storie, e poi del tempo, della musica, del ritmo… il tutto riportando spesso esempi di racconti o stralci di romanzi scritti dall’autore stesso, permettendoci così di inquadrare meglio quello che viene detto.
Sono indubbiamente molte le parti che meriterebbero di essere trattate e tra quelle che più mi hanno colpito c’è sicuramente il momento, proprio all’inizio, in cui parla delle varie fasi della sua scrittura. Non si tratta tanto di fasi temporali, ma di momenti in cui la scrittura assume significati differenti. Ci sono cioè racconti che sono stati scritti per puro godimento dello scrivere, della forma, della parola, che possiamo chiamare fase estetica. C’è poi la fase che Cortázar definisce metafisica, dove cioè si sofferma a ragionare sull’uomo. Mentre ci sono altri scritti con un intento che potremmo definire politico, in particolar modo legato alla situazione sudamericana. È interessante perché questo invita tutti noi a chiederci, giusto per riagganciarci alla puntata precedente, come mai stiamo scrivendo e che peso vogliamo dare al nostro lavoro, cosa vogliamo ottenere?
Ci sono poi delle prese di posizione su cosa sia per l’autore il fantastico e cosa il realistico, e su come le due cose possano anche mescolarsi, a volte, e confondersi.
Interessante, a questo proposito, l’esempio di un racconto che lui considera realista perché affronta la tematica delle sparizioni improvvise di persone durante le rivolte sudamericane, ma che presenta un vero elemento fantastico come la scomparsa, appunto, di una persona in un ufficio.
Mi resi conto che io vivevo, senza saperlo, in una familiarità totale con il fantastico, perché mi sembrava tanto accettabile, possibile e reale quanto il fatto di mangiare minestra alle otto di sera; quindi (come avrei detto a un critico che si rifiuta di capire cose evidenti) credo che a quel tempo io fossi già profondamente realista, più realista dei realisti, dato che i realisti come il mio amico accettavano la realtà solo fino a un certo punto, e tutto il resto era fantastico. Io accettavo una realtà più grande, più elastica, più dilatata, in cui entrava tutto.*
Ecco quindi che ogni scelta compiuta dall’autore, compresa quella di usare un determinato ‘genere’, o l’umorismo, per esempio, non è mai dettata da un desiderio di pura narrazione, ma da un certo modo di vedere il mondo, in primis, ma anche dalla volontà di creare qualcosa di ben preciso in cui il genere, se così vogliamo chiamarlo, diventa solo uno strumento di trasmissione di un’idea.
Il meccanismo dell’umorismo funziona pressappoco così: demolisce valori e categorie consueti, li ribalta, li mostra dall’altro lato, fa bruscamente saltare in aria cose che per abitudine, per assuefazione, per accettazione quotidiana non vedevamo più o vedevamo meno bene.*
Infine, ho trovato divertente una cosa che lui non dice mai esplicitamente, ma che è indubbiamente vera. Capita in più occasioni, infatti, che Cortázar racconti di come svariati critici abbiano cercato di dare dei significati a cose che invece, molto semplicemente, sono state scritte sull’onda di un’idea improvvisa. Ricorda per esempio che i suoi Cronopios, creature inventate e protagoniste di una sua raccolta, erano nati da un’idea casuale, mentre i critici si sono più volte interrogati sul rapporto tra il nome cronopio e il tempo, crono. Un rapporto che l’autore non si è mai nemmeno immaginato. Questo a ricordarci che, a volte, non servono tanti voli pindarici, concettuali, ma seguire una storia che riteniamo promettente e usare tutti gli strumenti che possediamo per perseguirla. Perché a fine lettura è forse questo che rimane di più, l’idea che non importa cosa tu voglia scriverle, purché tu abbia ben chiaro dove voglia arrivare e come utilizzare al meglio i tuoi mezzi.
Se c’è una cosa che difendo per me stesso, per la scrittura, per la letteratura, per tutti gli scrittori e per tutti i lettori, è la sovrana libertà dello scrittore di scrivere ciò che la sua coscienza e la sua dignità personale lo portano a scrivere.*
La lettura è agile e simpatica, si passa da aneddoti personali a riflessioni in grado di catturarti per sempre, a battute e a racconti che rimangono nel cuore. Un libro che consiglio non tanto a chi cerca un manuale di scrittura, perché questo non lo è, ma piuttosto a chi è curioso di sapere cosa ne pensasse della scrittura quello che Roberto Bolano definisce come “el mejor”. In ogni caso, per tutti gli aspiranti scrittori sarà occasione per conoscere una voce importante della letteratura, ma anche per riflettere su come tendiamo a scrivere.
Andrea Storti
*Tutte le citazioni sono tratte da Lezioni di letteratura, di Julio Cortázar, traduzione di Irene Buonafalce, Einaudi.