Teste Matte racconta la storia di Sasà, ragazzo cresciuto a pane e delinquenza nei Quartieri Spagnoli di Napoli, in una fase storica, quella degli anni ’70 e ’80, in cui la camorra napoletana visse il suo boom. La fase di Cutolo, del Far West, dei morti ammazzati, della cocaina a fiumi.
Attraverso le tante pagine del romanzo assistiamo all’involuzione del protagonista, che da semplice ragazzino sbandato e disonesto, scugnizzo affamato di vita e libertà, diviene pian piano tutto quello che ha odiato, tutto quello che ha detto di voler combattere.
Fiancheggiato dal cugino Totò, compagno di mille disavventure, Sasà commette una lunga serie di crimini: furti, scippi, rapine, tutto quello che serve per guadagnare soldi facili. Non vuole saperne della camorra, disprezza le prevaricazioni dei boss, porta sulla pelle le ferite della sua famiglia. Vuole ritagliarsi il suo mondo, senza sottostare a nessuno. Ma non è così che funziona. Non è lui a decidere il limite. Una volta salito sulla giostra non può fermarsi, deve andare sempre avanti, sempre più in alto. Un po’ per necessità, un po’ per istinto, si ritrova coinvolto in quel mondo che disprezzava, fatto di omicidi, guerre, prepotenze. Invischiato nelle logiche sporche dei clan, arriva, quasi per caso, a far parte di una banda, quella della Teste Matte, che prova a vivere un suo “sogno” sanguinario: una sorta di anarchia del crimine, una ribellione alla camorra fatta con i mezzi della camorra. Per Sasà è solo l’ultima tappa di una vita spesa nel disperato tentativo di non farsi calpestare dagli altri, di essere libero, seppure a costo di prevaricare e uccidere.
Una vita storta e distorta, figlia di un contesto deforme dove niente è come dovrebbe essere.
La prima cosa che ho pensato, quando ho terminato la lettura di Teste matte, è che questo poteva essere un grande romanzo, e invece è stato solo un romanzo grande, nel senso di voluminoso, con le sue seicento e passa pagine. Un’occasione sprecata. Perché la storia di fondo c’è, eccome; una storia forte, capace di prenderti e trascinarti con sé, fino alla fine, capace di appassionarti davvero. Ci sono i personaggi, c’è lo spessore. C’è l’incipit, ottimo, folgorante, un uncino che si infila sotto la pelle e ti spinge a continuare.
Ma è mancata la capacità di raccontarla nel modo giusto, questa storia. È mancato un po’ di mestiere, ed è strano, perché nel romanzo del 2013, Non mi avrete mai, Guido Lombardi aveva dimostrato di avere la stoffa. E a ben vedere, la storia di Gaetano Di Vaio non è tanto diversa da quella di Sasà Striano, non è più potente, ma è stata raccontata in circa trecento pagine appassionate e calibrate al millimetro. È stata raccontata con maestria. Qui invece no, il racconto si perde in una quantità di pagine eccessiva, con una mole di eventi non sempre essenziali per il racconto. Come se la voglia di raccontare fosse stata troppa per essere contenuta, troppa per essere gestita, ed ecco che il romanzo diventa un racconto-fiume, una lettura a tratti faticosa, stancante, abbastanza buona da non essere mollata ma non così buona da poter reggere indenne il peso delle seicento pagine.
Qualche dubbio lo lascia anche il linguaggio adottato: un mix di italiano e dialetto che non sempre convince, miscelando termini di strada a una lingua un po’ troppo pettinata in alcune occasioni.

Resta forte la curiosità per Sasà Striano, per la sua vita irregolare, difficile, pazza. Per la sua rinascita come attore, che qui non viene raccontata, relegata come è al secondo volume della sua autobiografia, intitolato La tempesta di Sasà. E un senso di vaga frustrazione. Perché Teste Matte non può essere definito un brutto romanzo, questo proprio no. Ma non è bello quanto avrebbe potuto essere. Peccato.
Aniello Troiano
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